Il contratto di vending non è un semplice accordo di fornitura. Dietro l’apparente semplicità di una macchina collocata in azienda per erogare caffè, bibite o snack si cela un assetto contrattuale complesso, che cumula il comodato d’uso dei distributori con la somministrazione continuativa dei prodotti. È proprio questa configurazione contrattuale mista che spiega perché i rapporti siano di norma pluriennali e perché la durata rivesta un ruolo centrale: il gestore investe in apparecchiature, logistica e manutenzione, mentre il cliente si aspetta un servizio costante e di qualità.
La durata contrattuale è quasi sempre stabilita in tre o cinque anni, con clausole di rinnovo automatico per uguale periodo, salvo che una delle parti comunichi per tempo di non voler proseguire. Questa comunicazione, che molti definiscono impropriamente “disdetta”, è in realtà una dichiarazione di mancato rinnovo alla scadenza contrattuale. È bene sottolinearlo: non si tratta di sciogliere un vincolo in corso, ma di impedire che il contratto si proroghi oltre la durata pattuita. In altre parole, il rapporto giunge alla sua naturale conclusione senza determinare un rinnovo del vincolo contrattuale.
Diverso, e assai più delicato, è il tema del recesso anticipato. Qui non si tratta di lasciare che il contratto giunga alla scadenza senza rinnovo del vincolo contrattuale, ma di interromperlo unilateralmente prima del tempo. In un contratto a tempo determinato, la regola generale dell’art. 1372 c.c. è chiara: le parti rimangono vincolate fino alla scadenza, salvo che il recesso sia previsto espressamente o che ricorra una giusta causa.
Ed è proprio sulla nozione di giusta causa che si gioca gran parte del contenzioso nel settore vending. Non basta una motivazione organizzativa, né una scelta aziendale di “politica interna”. Capita spesso che il cliente comunichi al gestore di voler eliminare i distributori per ragioni di ristrutturazione o per introdurre soluzioni alternative di welfare. Si tratta però di ragioni di mera convenienza, che non integrano la giusta causa richiesta dal codice civile.
La giurisprudenza e la dottrina sono concordi nell’affermare che la giusta causa si identifica in un fatto oggettivo, grave e imputabile alla controparte, che renda intollerabile la prosecuzione del contratto. Nel vending, esempi tipici sono macchine sistematicamente guaste e non sostituite, mancati rifornimenti reiterati, prodotti scaduti o non conformi agli standard igienico-sanitari. In queste circostanze, il cliente può recedere anticipatamente senza responsabilità. Diversamente, un recesso “per scelta aziendale” è privo di fondamento giuridico e comporta conseguenze rilevanti: il cliente, inadempiente, può essere chiamato a risarcire i danni, che comprendono i mancati guadagni del gestore, gli ammortamenti non recuperati e gli investimenti rimasti senza ritorno.
Dal lato del gestore, la rigidità della durata è essenziale. L’installazione delle macchine, il loro aggiornamento, la manutenzione periodica e la gestione degli approvvigionamenti richiedono investimenti che trovano giustificazione solo se distribuiti su più anni. Non a caso, i contratti di settore prevedono spesso clausole risolutive a favore del gestore – ad esempio in caso di violazione dell’esclusiva o di installazione di distributori concorrenti – ma raramente riconoscono al cliente un recesso convenzionale anticipato.
Occorre però osservare che anche il gestore può trovarsi nella condizione di voler “uscire” dal contratto. Può accadere, ad esempio, che il contratto non si riveli remunerativo rispetto agli incassi previsti, oppure che i costi di gestione e manutenzione, anche a causa di aumenti imprevisti dei prezzi dell’energia o delle materie prime, superino di gran lunga i ricavi. Dal punto di vista giuridico, tuttavia, la possibilità di recesso rimane subordinata al contenuto del contratto: solo se le parti hanno previsto espressamente una clausola che consenta al gestore di sciogliere il rapporto in presenza di tali circostanze (ad esempio una clausola di revisione prezzi o di uscita in caso di mancata redditività), il recesso sarà legittimo. In assenza di una previsione contrattuale, il gestore rimane vincolato fino alla scadenza naturale, salvo i casi tipici di giusta causa, come l’impossibilità di accesso ai locali, la manomissione dei distributori o la violazione dell’obbligo di esclusiva da parte del cliente.
Il punto da sottolineare è che la libertà contrattuale consente alle parti di prevedere soluzioni diverse. Nulla vieta di inserire una clausola di recesso convenzionale a favore del cliente, da esercitare con preavviso e con pagamento di una penale, così da contemperare le esigenze di flessibilità del cliente con la necessità del gestore di proteggere i propri investimenti. Nulla vieta, allo stesso modo, di riconoscere al gestore una clausola di uscita in presenza di circostanze straordinarie e non prevedibili che rendano antieconomico il servizio.
Ecco perché la predisposizione di contratti chiari e tutelanti è la vera chiave per evitare contenziosi. I gestori devono proteggere il valore dei propri investimenti attraverso clausole ben scritte sulla durata, sul rinnovo e sulle cause di recesso; i clienti, dal canto loro, devono leggere attentamente quelle clausole e comprendere che un contratto di vending non è revocabile ad nutum. Se desiderano una via di uscita, devono pretenderla al momento della firma, chiedendo l’inserimento di una clausola di recesso convenzionale che li metta al riparo da rigidità eccessive.
In conclusione, il diritto non lascia zone grigie: la comunicazione di mancato rinnovo alla scadenza è sempre possibile, mentre il recesso anticipato è ammesso solo in casi specifici e ben circoscritti. Confondere i due istituti, come spesso accade, espone a rischi seri. E nel vending, dove gli interessi economici in gioco sono rilevanti, la chiarezza contrattuale non è un dettaglio: è la condizione essenziale per rapporti duraturi, equilibrati e privi di contenziosi.
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